Rassegna Stampa 2019

Nella Sala dei Baroni del Maschio Angioino il Festival di Musica da Camera propone i violoncelli di Giovanni Gnocchi e degli allievi della sua Masterclass

Nuovo appuntamento con la XIX edizione del Festival di Musica da Camera, rassegna organizzata dall’Associazione Napolinova e affidata alla direzione artistica di Alfredo de Pascale. Nella suggestiva ed alquanto gelida Sala dei Baroni del Maschio Angioino, protagonista della mattinata è stato il violoncellista Giovanni Gnocchi, contornato da una serie di giovani esecutori, fra i quali alcuni dei partecipanti alla masterclass tenuta dal musicista nei giorni precedenti il concerto. In apertura è stato proposto il Capriccio n. 4 in re minore di Joseph Dall’Abaco (1710-1805), figlio del più noto Evaristo Felice (dedicatario del Conservatorio di Verona), nato a Bruxelles in quanto il padre era al servizio dell’Elettore di Baviera Massimiliano II, esule in Belgio. Il successivo Ricercare n. 7 in re minore del bolognese Domenico Gabrielli (1651 o 1659 -1690), dalla raccolta Ricercari, canone e sonate per violoncello, risalente al 1689, ci portava ad un virtuoso soprannominato “Minghin dal viulunzaal” (“Domenichino del violoncello”) che, nonostante sia vissuto poco, portò avanti una prestigiosa carriera nell’ambito dell’Accademia Filarmonica di Bologna, dove fu ammesso nel 1676. Decisamente più noto il terzo brano per violoncello solo, la Suite n. 2 in re minore BWV 1008 di Johann Sebastian Bach (1685-1750), appartenente alla raccolta di Sei suites per violoncello, catalogate come BWV 1007-1012, scritte probabilmente fra il 1717 ed il 1723, quando l’autore era alla corte del principe di Köthen. Dopo la prima parte solistica, affidata a Gnocchi, spazio anche agli altri violoncellisti, cominciando con la suggestiva Lamentatione “Fuerunt mihi lachrimae” in re minore a 4 di Antonio Ferrabosco il giovane (1575-1628), di padre italiano che però trascorse la sua esistenza interamente in Inghilterra, portando avanti una carriera prestigiosa come musicista di corte in qualità di virtuoso della viola da gamba e insegnante del principe Enrico. Il successivo Larghetto, op. 104 in sol minore per tre violoncelli era tratto dalla produzione del tedesco Johann Friedrich Dotzauer (1783-1860), famoso soprattutto per i manuali e gli studi didattici dedicati al violoncello, ancora oggi utilizzati. La seconda parte si chiudeva con una trascrizione dell’aria “Mentr’io godo in dolce oblio”, dall’oratorio “Il Giardino delle Rose, o la Santissima Vergine del Rosario” di Alessandro Scarlatti (1660-1725), che ebbe la “prima” a Roma nel 1707, presso la residenza del principe Ruspoli, probabile autore del testo. Ultimi due brani in programma, che costituivano la parte conclusiva, il Notturno in re minore, op. 19 n. 4 per violoncello ed archi di Pëtr Il’ič Čajkovskij (1840-1893) ed il Quintetto in mi maggiore op. 11 n. 5 G 275 di Luigi Boccherini (1743-1805). Il primo originava da una trascrizione per violoncello e orchestra, operata nel 1888, del n. 4 dei Six Morceaux per pianoforte, op. 19 (1873), mentre il secondo è universalmente noto per il suo minuetto. Veniamo ai protagonisti, iniziando da Giovanni Gnocchi, attualmente una delle maggiori eccellenze in ambito internazionale, abile a vincere, con il suo splendido violoncello Tommaso Balestrieri del 1760, l’acustica penalizzante della Sala dei Baroni. Molto bravi anche gli alunni della Masterclass Severo Aurilio, Massimo Bertucci, Viola Bonomi, Alessandro De Feo, Barbara Nagode, Claudia Notarstefano, Luigi Visco, Francesco Tamburini, Martina Tranzillo e Anastasia D’Amico, con gli ultimi tre che si sono alternati nei diversi movimenti del Quintetto di Boccherini. Infine, una nota di merito anche per i violinisti Federica Tranzillo e Christian Caiazza e per il violista Francesco Mariani, ottimi interpreti dei due brani con i quali si è concluso un concerto molto interessante dal punto di vista storico-musicale, che ha messo in evidenza una serie di autori, in parte completamente sconosciuti, eseguiti da ragazzi di grande talento, dei quali certamente sentiremo parlare in futuro.

Fiorenzo Pascalucci grande protagonista della XXI edizione del Festival Pianistico di Napolinova

Foto di Max Cerrito

Giunto alla XXI edizione, il Festival Pianistico, organizzato dall’Associazione Napolinova, ed affidato alla direzione artistica del maestro Alfredo de Pascale, anche quest’anno è stato inserito nell’ambito del Maggio dei Monumenti 2019. Sedi degli appuntamenti musicali sono state la Sala della Loggia e la Sala dei Baroni, situate nel Maschio Angioino, dove si sono esibiti rispettivamente giovani promesse ed artisti affermati. Fra questi ultimi, abbiamo avuto il piacere di assistere al concerto tenuto da Fiorenzo Pascalucci intitolato “Dalla nascita alla contaminazione”, apertosi con la Sonata in do maggiore K. 330 di Wolfgang Amadeus Mozart, composta a Vienna nel 1781, anno che segnava il definitivo distacco del musicista dalla corte di Salisburgo e la contemporanea necessità di sbarcare il lunario come musicista “freelance”. A tale proposito le sonate di quel periodo furono concepite per andare incontro ai dilettanti viennesi, particolarmente numerosi e di buon livello, per cui, ad esempio, la sonata in questione fu pubblicata dalla casa editrice Artaria nel 1784, in una raccolta, definita op. 6, che comprendeva anche la Sonata K. 331 in la maggiore e la Sonata K. 332 in fa maggiore. Era poi la volta della Suite, op. 40 “Ai tempi di Holberg” di Edvard Grieg, risalente al 1884, scritta in occasione del secondo centenario della nascita di Ludvig Holberg, una delle maggiori personalità della cultura scandinava del Settecento, noto anche come “Il Moliére del Nord”. L’anno successivo il pezzo conobbe, sempre ad opera dell’autore norvegese, una versione per orchestra d’archi, che è quella maggiormente nota ai nostri giorni. Toccava quindi a due composizioni di Maurice Ravel, la Pavane pour une Infante défunte, pubblicata nel 1899 e Jeux d’eau, datata 1901. La prima venne dedicata alla principessa di Polignac, ovvero la statunitense Winnaretta Singer, una dei 23 figli dell’industriale americano di origini ebraiche, noto per aver venduto in tutto il mondo le macchine per cucire. Trasferitasi a Parigi, aveva sposato in seconde nozze Edmond de Polignac, portando a termine un’unione di reciproca convenienza, in quanto il nobile decaduto aveva rinsanguato le sue scarse finanze, mentre lei aveva acquisito un titolo che le permetteva di frequentare l’alta società e dare ampio spazio al suo mecenatismo nei confronti di un cospicuo numero di futuri celebri compositori. Il brano fu poi orchestrato da Ravel nel 1910, ottenendo un’ampia risonanza, e fu da lui totalmente ripudiato nel 1912, in quanto non più consono ai suoi nuovi canoni musicali. Riguardo a Jeux d’eau, il dedicatario fu invece Gabriel Fauré, che aveva creduto nel valore di Ravel, diventando suo docente dopo averlo fatto riammettere al conservatorio di Parigi nel 1897, dal quale era stato espulso due anni prima per scarso rendimento. Il pezzo, che risulta più vicino alle descrizioni lisztiane che all’impressionismo di Debussy, e anticipa le atmosfere legate alla musica di Messiaen, esordì nel 1902, affidato al pianista e amico Ricardo Viñes. Ultimo brano in programma, la celeberrima Rhapsody in Blue di George Gershwin. La storia della nascita di questo brano risulta abbastanza complessa e inizia con una commissione di Paul Whiteman, all’epoca direttore di una delle più note orchestre jazz americane, che desiderava un concerto per pianoforte ed orchestra jazz.Senza entrare nei particolari della vicenda, Gershwin ebbe a disposizione un periodo ristrettissimo (da inizio gennaio alla prima parte di febbraio del 1924) per portare a termine il suo lavoro, al punto che la parte pianistica non era ancora pronta il giorno della “prima” e quindi fu costretto a improvvisare sul palcoscenico, mentre quella orchestrale venne completata dal compositore Ferde Grofé, all’epoca stretto collaboratore di Whiteman. L’esordio, avvenuto il 12 febbraio all’Aeolian Hall di New York, quasi al termine di un concerto-fiume dal titolo An Experiment in Modern Music, riscosse un successo strepitoso di pubblico, mentre incontrò il parere negativo di diversi critici. Ebbero ragione gli appassionati perché la Rapsodia conobbe una diffusione notevole, soprattutto nella versione per grande orchestra di Grofé (1942), che nel 1926 ne aveva già fornita una con un organico strumentale più ridotto, e lo stesso Gershwin diede vita a due versioni, una per pianoforte ed un’altra per due pianoforti. Veniamo ora al protagonista, Fiorenzo Pascalucci che, all’ottima scelta dei brani, che ben si prestavano a descrivere l’evoluzione portata avanti nei circa 150 anni che separano la sonata di Mozart dalla rapsodia di Gershwin ((da cui il titolo “Dalla nascita alla contaminazione” dato alla serata), ha abbinato un’interpretazione in grado di salvaguardare le composizioni da un’acustica ricca di riverberi, dovuta alla particolare configurazione della Sala dei Baroni. Molte le emozioni trasferite al pubblico, con l’apice raggiunto, a nostro avviso, da una memorabile Pavana, interpretata senza eccedere in languori ad effetto, ma infondendo al pezzo una magistrale vena nostalgica, proprio quella che, a torto, Ravel tese in seguito a sconfessare. Dal canto loro gli spettatori (ma era difficile non aspettarsi il contrario), hanno mostrato il maggior gradimento nei confronti del pezzo gershwiniano, al punto che hanno chiesto ed ottenuto un paio di bis legati alla produzione dell’autore statunitense (Oh, Lady Be good e I Got Rhythm, rispettivamente dai musical Lady Be Good! e Girl Crazy), piacevolissima chiusura dell’intero recital.

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